La prima reazione, di fronte ad un accadimento doloroso, é per tutti di "avversione".
("...non é giusto, perché a me, non ce la faccio... ").
La tendenza puó proseguire nel continuare a "resistere" (quasi a voler negare), che si accompagna a rimuginazioni infinite (pensieri, sensazioni, immagini mentali che precocemente categorizziamo come piacevoli e spiacevoli)... ed é allora che il dolore si cristallizza in qualcosa di sordo, inaccettabile, spaventoso... é l'inizio dell' "inferno" della mente.
L'unica via alternativa (e "creativa") é quella dell'accettazione.
Che non é passiva rassegnazione, che porta all'indurimento del cuore, che corrisponde sempre ad una forma di rifiuto.
L'accetazione incomincia quando mi permetto di accogliere quel dolore (la mente sa come "regolarsi", tutelandoci rispetto a tempi e quantità).
Accoglierlo con il coraggio di osservarlo per quello che é.
Non c'é un problema da risolvere.
Si tratta di "stare" sulla sofferenza quanto basta.
Si tratta, osservandola, di scoprire quale aspetto/i sono i piú dolenti.
Cosa, di ció che prima era un "blob" indistinto mi fa maggiormente soffrire e perché.
Poco per volta, lo "stare" ed il "differenziare" rendono il dolore meno cupo e soprattutto insensato.
Colgo quanto questo momento sia profondamente intrinseco alla gioia di ieri, e che non potrebbe essere altrimenti.
Diviene tutto piú "morbido"; mi abituo che i pensieri belli e brutti si alternano, ma che si trasformano e mi trasformano, in modo paziente.
Accogliendolo, accolgo automaticamente anche me stesso.
Un atteggiamento "gentile" verso me stesso che si contrappone alla "durezza" e all'esigenza (pretesa) del resistervi, che porta alla realizzazione proprio di ció che temiamo, perché gli abbiamo aperto "le porte della mente".
Nel rifiuto di soffrire, paradossalmente, continuano a familiarizzare esclusivamente con le nostre piú profonde paure.
La "resistenza nel resistere"!
Accettazione é compassione verso il me sofferente.
É la compassione verso la mia condizione di "fragilitá", che caratterizza l'essere umano in quanto tale.
É abbracciare letteralmente se stessi.
E da qui, la compassione verso gli altri.
Altri esseri umani fragili come me, dunque bisognosi.
E dal bisogno, quasi la necessitá di scorgere quella fragilitá anche nell'altro, per poterla condividere; sapendo che é condizione comune, anche in chi, apparentemente ne sembra quasi immune.
Ci rende sensibili al dolore di ogni essere vivente
(animali compresi).
Ci fa sentire tutti uguali e vicini.
Non é facile, ma é l'unica via coerente con la realtá della vita e di ogni essere vivente, dunque l'unica via sensata!
"Ma perché questa insistenza sulla sofferenza? Nella vita bisogna essere felici!"
Si puó concretamente gioire solo accettando la sofferenza.
Nel bisogno di essere "felici" c'é banalmente un'errata interpretazione del significato del termine, che viene fatto corrispondere quasi esclusivamente al concetto di "piacere".
Provare piacere é molto differente dal provare gioia o felicitá.
Il piacere non é mai completo, é misurabile, non appaga mai a sufficienza; la gioia e la felicitá sono complete in se stesse.
Non posso misurare la gioia di fronte ad un tramonto, perché é "completa" e non avrebbe nemmeno senso chiederselo, ma posso misurare il piacere che mi procura quel particolare cibo, oggetto, rapporto sessuale senza amore, e dalla misurazione fare paragoni senza fine.
("...non é giusto, perché a me, non ce la faccio... ").
La tendenza puó proseguire nel continuare a "resistere" (quasi a voler negare), che si accompagna a rimuginazioni infinite (pensieri, sensazioni, immagini mentali che precocemente categorizziamo come piacevoli e spiacevoli)... ed é allora che il dolore si cristallizza in qualcosa di sordo, inaccettabile, spaventoso... é l'inizio dell' "inferno" della mente.
L'unica via alternativa (e "creativa") é quella dell'accettazione.
Che non é passiva rassegnazione, che porta all'indurimento del cuore, che corrisponde sempre ad una forma di rifiuto.
L'accetazione incomincia quando mi permetto di accogliere quel dolore (la mente sa come "regolarsi", tutelandoci rispetto a tempi e quantità).
Accoglierlo con il coraggio di osservarlo per quello che é.
Non c'é un problema da risolvere.
Si tratta di "stare" sulla sofferenza quanto basta.
Si tratta, osservandola, di scoprire quale aspetto/i sono i piú dolenti.
Cosa, di ció che prima era un "blob" indistinto mi fa maggiormente soffrire e perché.
Poco per volta, lo "stare" ed il "differenziare" rendono il dolore meno cupo e soprattutto insensato.
Colgo quanto questo momento sia profondamente intrinseco alla gioia di ieri, e che non potrebbe essere altrimenti.
Diviene tutto piú "morbido"; mi abituo che i pensieri belli e brutti si alternano, ma che si trasformano e mi trasformano, in modo paziente.
Accogliendolo, accolgo automaticamente anche me stesso.
Un atteggiamento "gentile" verso me stesso che si contrappone alla "durezza" e all'esigenza (pretesa) del resistervi, che porta alla realizzazione proprio di ció che temiamo, perché gli abbiamo aperto "le porte della mente".
Nel rifiuto di soffrire, paradossalmente, continuano a familiarizzare esclusivamente con le nostre piú profonde paure.
La "resistenza nel resistere"!
Accettazione é compassione verso il me sofferente.
É la compassione verso la mia condizione di "fragilitá", che caratterizza l'essere umano in quanto tale.
É abbracciare letteralmente se stessi.
E da qui, la compassione verso gli altri.
Altri esseri umani fragili come me, dunque bisognosi.
E dal bisogno, quasi la necessitá di scorgere quella fragilitá anche nell'altro, per poterla condividere; sapendo che é condizione comune, anche in chi, apparentemente ne sembra quasi immune.
Ci rende sensibili al dolore di ogni essere vivente
(animali compresi).
Ci fa sentire tutti uguali e vicini.
Non é facile, ma é l'unica via coerente con la realtá della vita e di ogni essere vivente, dunque l'unica via sensata!
"Ma perché questa insistenza sulla sofferenza? Nella vita bisogna essere felici!"
Si puó concretamente gioire solo accettando la sofferenza.
Nel bisogno di essere "felici" c'é banalmente un'errata interpretazione del significato del termine, che viene fatto corrispondere quasi esclusivamente al concetto di "piacere".
Provare piacere é molto differente dal provare gioia o felicitá.
Il piacere non é mai completo, é misurabile, non appaga mai a sufficienza; la gioia e la felicitá sono complete in se stesse.
Non posso misurare la gioia di fronte ad un tramonto, perché é "completa" e non avrebbe nemmeno senso chiederselo, ma posso misurare il piacere che mi procura quel particolare cibo, oggetto, rapporto sessuale senza amore, e dalla misurazione fare paragoni senza fine.