La "lezione" l'abbiamo imparata; non occorre riviverla per andare oltre.
Rivivere il passato, che ci ricorda quel che abbiamo perso, sbagliato, quel che non è più, fa parte dell'attitudine a lamentarsi, a compiangersi, a stagnare nel rimpianto, nei sensi di colpa.
Questo aggiunge una sofferenza supplementare al dolore.
Via via ci percepiamo sempre meno privi di risorse sufficienti per fronteggiare la situazione avversa, ed ingigantisce quest'ultima con pensieri ed immagini di ancor peggiori "catastrofi" imminenti e vissute come certe nel loro accadere.
La parte "sana" del lamentarsi corrisponde al chiedere aiuto; è funzionale al far capire all'altro la nostra sofferenza.
Ma in un tempo in cui la società ha toccato le massime punte dell'individualismo, visto persino come modo virtuoso di stare al mondo, il chiedere aiuto spesso è fonte di ulteriore sofferenza, non tanto e non solo per l'aiuto non ricevuto bensì per la visione di mondo che si dispiega ai nostri occhi; ed inoltre, dobbiamo ricordarci che nulla ci è dovuto!
Dunque, la vita non è come l'avevamo desiderata, e neppure l'habitat nel quale viviamo.
Ed è il buio!
Interessante, il concetto di "notte oscura", intesa come percezione della non presenza di Dio; esperienza non risparmiata, a nessuna persona riconosciuta Santa, in qualche periodo della sua vita.
(Per Madre Teresa questo periodo è durato vent'anni).
È il momento dell'angoscia più profonda perchè tutto sembra perdere di senso.
È il momento in cui occorre la massima lucidità possibile, nel comprendere che non ci sono che due alternarive:
arrendersi (che si manifesta in tutte le forme del "tirare avanti", del sopravvivere alla giornata...) oppure combattere.
Non è il momento nemmeno di pensare...
non serve!
Inutile "meditare" sotto l'albero, aspettando una qualche illuminazione.
Inutile scappare, perchè è da te che stai scappando, è te che stai per perdere e potrebbe essere per sempre.
Combattere corrisponde esclusivamente al darsi da fare accettando di essere, chi più chi meno, ma sostanzialmente soli nella lotta.
"Se non ora quando, se non io chi", dal Talmud.
Ma se sono solo, sono anche totalmente immune al giudizio altrui.
Alle parole di chi potrei mai dar credito circa quel che sto vivendo?
Come potrebbe mai essere preso in considerazione e turbarmi un giudizio "inopportuno" su tutto questo mio (in quanto mio) dolore?
Ho già messo in conto d'esser solo; la delusione non è contemplata.
Ed il tempo della misericordia per chi è privo di compassione è prematuro.
Dunque fare, anche se non se ne vede il senso, anche se significa "navigare a vista", anche con l'ansia che trabocca, anche con le lacrime che non sono nemmeno più negli occhi ma ormai costantemente nel cuore.
Combattere non corrisponde al raggiungere la vetta (i ghiacci dell'Everest sono tomba per moltitudine di corpi che non ce l'hanno fatta, ma che ci hanno provato), ma dare il meglio di sé!
Passo dopo passo, inciampare, rialzarsi e rimettersi in marcia senza vedere la meta, perchè è ancora troppo lontana e perchè siamo ancora avvolti dalla nebbia, senza scandire il tempo, che di solito è il tempo della nostra impazienza.
Ma camminare nella nebbia aguzza via via la vista ed i fiori della fatica non mancano MAI di sbocciare!
Saranno i fiori più rari e sconosciuti.
Fiori che crescono in posti remoti ed impervi da raggiungere.
Non sono i mazzi di rose acquistati in internet ed in quanto tali potrebbero non essere nemmeno visti dai più.
Ma a quel punto, il riconoscimento non sarà nemmeno più una parola che farà parte del nostro vocabolario.
Non c'è altro che possa dare senso alla vita se non lottare sino alla fine.
Lottare non significa "essere in guerra".
Si può lottare con "leggerezza e gioia".
Ed è ovvio che la "fine" sia relativa alle proprie capacità di sopportazione, ma non deve essere questo il pensiero recondito da cui partire.
Sino alla fine significa sino alla fine!
Rivivere il passato, che ci ricorda quel che abbiamo perso, sbagliato, quel che non è più, fa parte dell'attitudine a lamentarsi, a compiangersi, a stagnare nel rimpianto, nei sensi di colpa.
Questo aggiunge una sofferenza supplementare al dolore.
Via via ci percepiamo sempre meno privi di risorse sufficienti per fronteggiare la situazione avversa, ed ingigantisce quest'ultima con pensieri ed immagini di ancor peggiori "catastrofi" imminenti e vissute come certe nel loro accadere.
La parte "sana" del lamentarsi corrisponde al chiedere aiuto; è funzionale al far capire all'altro la nostra sofferenza.
Ma in un tempo in cui la società ha toccato le massime punte dell'individualismo, visto persino come modo virtuoso di stare al mondo, il chiedere aiuto spesso è fonte di ulteriore sofferenza, non tanto e non solo per l'aiuto non ricevuto bensì per la visione di mondo che si dispiega ai nostri occhi; ed inoltre, dobbiamo ricordarci che nulla ci è dovuto!
Dunque, la vita non è come l'avevamo desiderata, e neppure l'habitat nel quale viviamo.
Ed è il buio!
Interessante, il concetto di "notte oscura", intesa come percezione della non presenza di Dio; esperienza non risparmiata, a nessuna persona riconosciuta Santa, in qualche periodo della sua vita.
(Per Madre Teresa questo periodo è durato vent'anni).
È il momento dell'angoscia più profonda perchè tutto sembra perdere di senso.
È il momento in cui occorre la massima lucidità possibile, nel comprendere che non ci sono che due alternarive:
arrendersi (che si manifesta in tutte le forme del "tirare avanti", del sopravvivere alla giornata...) oppure combattere.
Non è il momento nemmeno di pensare...
non serve!
Inutile "meditare" sotto l'albero, aspettando una qualche illuminazione.
Inutile scappare, perchè è da te che stai scappando, è te che stai per perdere e potrebbe essere per sempre.
Combattere corrisponde esclusivamente al darsi da fare accettando di essere, chi più chi meno, ma sostanzialmente soli nella lotta.
"Se non ora quando, se non io chi", dal Talmud.
Ma se sono solo, sono anche totalmente immune al giudizio altrui.
Alle parole di chi potrei mai dar credito circa quel che sto vivendo?
Come potrebbe mai essere preso in considerazione e turbarmi un giudizio "inopportuno" su tutto questo mio (in quanto mio) dolore?
Ho già messo in conto d'esser solo; la delusione non è contemplata.
Ed il tempo della misericordia per chi è privo di compassione è prematuro.
Dunque fare, anche se non se ne vede il senso, anche se significa "navigare a vista", anche con l'ansia che trabocca, anche con le lacrime che non sono nemmeno più negli occhi ma ormai costantemente nel cuore.
Combattere non corrisponde al raggiungere la vetta (i ghiacci dell'Everest sono tomba per moltitudine di corpi che non ce l'hanno fatta, ma che ci hanno provato), ma dare il meglio di sé!
Passo dopo passo, inciampare, rialzarsi e rimettersi in marcia senza vedere la meta, perchè è ancora troppo lontana e perchè siamo ancora avvolti dalla nebbia, senza scandire il tempo, che di solito è il tempo della nostra impazienza.
Ma camminare nella nebbia aguzza via via la vista ed i fiori della fatica non mancano MAI di sbocciare!
Saranno i fiori più rari e sconosciuti.
Fiori che crescono in posti remoti ed impervi da raggiungere.
Non sono i mazzi di rose acquistati in internet ed in quanto tali potrebbero non essere nemmeno visti dai più.
Ma a quel punto, il riconoscimento non sarà nemmeno più una parola che farà parte del nostro vocabolario.
Non c'è altro che possa dare senso alla vita se non lottare sino alla fine.
Lottare non significa "essere in guerra".
Si può lottare con "leggerezza e gioia".
Ed è ovvio che la "fine" sia relativa alle proprie capacità di sopportazione, ma non deve essere questo il pensiero recondito da cui partire.
Sino alla fine significa sino alla fine!